giovedì 10 giugno 2010

I Fisiocratici



I Fisiocratici sono quegli studiosi di cose sociali –o quegli economisti [1]-, per i quali la natura è dotata di una potenza o capacità creativa (fisiocrazia), che viene stimolata, ‘occasionata’, dall’azione dell’uomo. [2]
Questa concezione della natura -non come o informe estensione, ma sì come potere, energia, creatività-, nel caso dei Fisiocratici (come in generale nell’ambiente culturale dal Cinque al Settecento), non comporta vitalismo irrazionalistico, sì piuttosto la convinzione che i processi naturali siano espressivi di una razionalità obiettiva, la quale di fatto è una sorta di traduzione laica della cristiana provvidenza divina (ma che, naturalmente, ha anche più lontane e meno ‘esaltate’ origini) [3]. Possiamo comprendere, dunque, perché proprio i Fisiocratici abbiano affrontato il problema (in realtà, son stati gli ultimi a farlo) di quale concreta attività umana in particolare sia capace di assicurare la ricchezza di una nazione; e che l’abbiano risolto con l’identificarla –quell’attività- nel lavoro agricolo [4], vale a dire nella fatica, che più direttamente mette l’uomo a contatto con la natura, appunto.
Né ovviamente è casuale che il personaggio da tutti riconosciuto come il più significativo tra i Fisiocratici –intendo, com’è chiaro, François Quesnay (1694 – 1774)- sia autore non solo di scritti economici, ma anche di pagine, dichiaratamente interne alla tradizione giusnaturalistica: nel suo numero di settembre del 1765, infatti, il “Journal d’agricolture” pubblicava l’articolo, appunto di Quesnay, intitolato Le Droit Naturel. [5]
In generale (vaguement), osserva Quesnay iniziando il suo scritto, ogni uomo ha “diritto naturale (droit naturel)” a tutto ciò, che serve alla sua jouissance. [6]

Dunque, nella prospettiva del nostro autore, vale un nesso fondamentale (essenziale, si potrebbe dire) fra droit naturel e jouissance: - vale la pena sottolinearlo questo nesso, dacché serve, per un lato, a far risaltare il carattere nettamente fisico, immediato, ‘patologico’ della semantica di ; per l’altro, poiché ci dà un’indicazione significativa, se vogliamo comprendere quale sia il senso che in generale termini come ‘natura’, ‘naturale,’ acquistano nell’ottica fisiocratica.
Le due pagine -di Quesnay e di Rousseau- sono certamente accostabili; addirittura son complementari –nel senso che entrambe si inscrivono all’interno d’uno stesso pensiero.
Il diritto è naturale, non solo perché non è fondato dalla società, (sì piuttosto è la società che si basa su di esso); ma, ancora, perché naturale ne è la materia, l’oggetto a cui il diritto rivolge la sua attenzione ed, ancora, naturale è la richiesta (di jouissance), che esso punta a soddisfare.
In questo contesto, la proprietà privata è anch’essa naturale, perché (a) obiettivazione del lavoro svolto, (b) segno esteriore che la personalità è presente, (c) garanzia oggettiva che il soggetto è ancorato nel mondo.
Con la serie droit naturel/jouissance/propriété privée, va presentandosi un’ambigua dimensione, in cui natura (nel senso di sentimento, parzialità, pathos) e ragione (nel senso di una misura, universalmente equilibrante) si rovesciano l’una nell’altra, sono l’una se stessa e il proprio altro. Dunque, una concezione della natura, tale per cui essa -nella propria immediatezza- è, paradossalmente, mediazione, regola, universalità.
Che la catena droit naturel/jouissance, porti con sé implicitamente anche altre connessioni semantiche –più specificate socialmente e storicamente- ce lo prova J. J. Rousseau, il quale - nell’articolo Économie politique (1755)- scrive: “bisogna ... ricordare che il fondamento del patto sociale è la proprietà e che la sua prima condizione è che ognuno sia mantenuto nel pacifico godimento (jouissance) di ciò che gli appartiene.”; “infatti, essendo tutti i diritti civili fondati su quello di proprietà, non appena quest’ultimo è abolito nessun altro può sussistere. La giustizia non sarà che una chimera e il governo una tirannide e, non avendo l’autorità pubblica alcun fondamento legittimo, nessuno sarà tenuto a riconoscerla, se non in quanto vi sia costretto con la forza.”. [7]

Questo paradosso corrisponde ad una posizione largamente diffusa tra Cinque e Settecento, la quale si oppone ad un altro modo di tematizzare il . Per chiarire questo punto, deviamo parzialmente dal terreno della nostra analisi, però, in questo modo realmente approfondendola.
J. Locke (1632-1704) –scrive Sabine- “ha mischiato tra loro due punti di vista incompatibili: secondo il primo punto di vista, tanto gli individui quanto le istituzioni compiono un'opera socialmente utile, regolata dal governo per il bene di tutti e nel quadro della legge che fa del gruppo una comunità: questo (è un) punto di vista, che Locke aveva ricevuto dalla tradizione medievale giuntagli attraverso Hooker (1553-1600) [8] … Il secondo punto di vista, elaborato da Hobbes (1588-1679), concepisce invece la società come un insieme di persone che agiscono per moventi egoistici, che guardano alla legge ed al governo per la loro sicurezza di fronte a compagni egualmente egoisti, e che mirano alla maggiore quantità di bene privato compatibile col mantenimento della pace.” [9]
Ancora, sottolinea lo studioso moderno W. Euchner, J. Locke "non ha mai consapevolmente posto in dubbio l'esistenza di norme create da dio, naturali, conoscibili dagli uomini” [10]; e da parte sua il francese J. Polin scrive che: “ la religion de Locke est d'abord la foi dans un ordre morale e physique immenent au monde. C'est pourqoi sa pensée se situe si aisèment en continuitè avec la pensée antique, avec le cosmos d'Aristote, ou avec le cosmos des Stoiciens. C'est l'ordre qui est supreme, et dans les oeuvres des hommes, c'est aussi l'ordre qui doit l'etre, et par la loi.” [11]
Le due linee, che Sabine indicava come l’una di Locke e l’altra di Hobbes [12], si differenziano alla radice per il diverso rapporto, che ognuna stabilisce fra ragione e dignità umana.

La linea à la Locke identifica sostanzialmente dignità umana e partecipazione alla ragione; conseguentemente, tende a risolvere nella vita sociale la partita della moralità e tende a considerare la socialità come esaltazione ed arricchimento della dignità dell’uomo.
La linea à la Hobbes, invece, la dignità umana, nel senso che ne fa una prospettiva di valore, non favorita ma sì minacciata dalla socialità e da essa essenzialmente distinta. Come sottolineava Sabine, l’uomo di Hobbes è costretto alla vita sociale, questa è il minor male a cui si piega, ma sempre con lo scopo di garantirsi sicurezza e (per quanto possibile) indipendenza dal vincolo sociale. [13]






1 - Il fatto è –come vedremo- che il termine è stato usato storicamente in accezioni, significativamente diverse. La conseguenza è che il senso, in cui i Fisiocratici erano economisti, non è lo stesso, secondo cui oggi diciamo, per es., che X è un economista o che P è una disciplina economica. Cf. Appendice 1.

2 - Naturalmente è di grande interesse –a questo punto- ricordare la critica, che alla concezione della causalità, muove nel Settecento lo scozzese D. Hume, appunto centrata sulla denuncia dell’oscurità semantica di termini come potere, forza, energia creativa, quando il problema sia render chiari processi reali, obiettivi.

3 - Mi riferisco alla nota situazione: quando intendo ricostruire la storia di un termine, di un tema, di un problema, certamente posso riuscire con successo nel mio scopo e tracciare, dunque, effettivamente ‘la storia’ di quel termine, tema o problema. Senonchè (cosa che, certo, non meraviglierebbe Sesto Empirico), sicuramente è dimostrabile che anche un’altra e un’altra ancora potrebbe esser proposta come storia di quel termine, tema o problema. Qui ci imbattiamo nel tema del rapporto fra storia umana e possibile: ovviamente non lo affrontiamo; limitiamoci ad una osservazione. L’unico senso che determinare, determinazione e simili possono avere in sede di scienze morali (o almeno il più frequente) è, probabilmente, questo: poste le condizioni C, C’, C” …, può determinarsi la situazione S, dalla quale –mancando impedimenti sufficientemente forti- è altamente probabile che derivi la necessità N.

4 - Come vedremo, fa problema determinare cosa intendessero esattamente i Fisiocratici, quando dicevano .

5 - La nozione di legge di natura gioca un importante ruolo anche per l’estetica settecentesca (cf. E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Torino 1991.

6- Jouissance è termine, che sta a dire , per lo più in senso fisico ed economico (ad es., godimento di una rendita), pur se la lingua francese ne ammette l’uso anche per significare .

7 - E’ interessante ricordare come solo qualche decennio dopo, nel 1819, il nesso jouissance/proprietà privata risultasse, oramai, ben più problematico. Nei sui Nouveaux principles d’économie politique , Sismondi (1773–1842) sottolinea il nesso tra capitalismo, immiserimento morale, polarizzazione di ricchezza e miseria. In definitiva, Sismondi sottolineava come lo sviluppo di questo sistema produttivo, se accresce il godimento (jouissance), lo fa solo relativamente ai beni materiali ed, inoltre, accrescendo, da un lato, la ricchezza, dall’altro, la miseria. Conseguenze di tutto ciò, sottolinea ancora Sismondi, crisi e disoccupazione.

8 - "Rivelatrice è in Hooker l'assenza di una dottrina del contratto sociale: alla base della sua concezione politica troviamo piuttosto l'idea ”. (L. Ricci Garotti, “J. Locke tra politica e filosofia”, in SOCIETA’, n. 2-1961:183).

9 - G. Bedeschi, “Società naturale e società civile nella filosofia politica di Locke”, in J. Locke, Saggi sulla legge naturale, Bari 1973: XXV-XXVI.

10 - cf. J. Locke, Saggi sulla legge naturale, op. cit.: XXVIII.

11 - ivi: XXVII.

12 - "Locke. . . concepì i rapporti di famiglia e di proprietà sul fondamento non della legge civile, ma della legge di natura. Mentre il Grozio e l'Hobbes. . . invocarono la natura per negare la possibilità di costruire su di essa un qualsiasi ordinamento giuridico e, mediante il patto, crearono l'ordine civile come ordine superiore di ragione contrapposto o sovrapposto all'ordine originario di natura, dominato dagli istinti e dagli appetiti, il Locke nega, almeno teoricamente, il dualismo tra ragione e senso, tra stato di natura e stato civile: la natura è essa stessa ragione, o meglio va intesa e interpretata razionalmente, per cui lo stato civile non sarebbe che lo stato naturale alla luce di una sana e illuminata ragione." (G. Solari, La filosofia politica. II. Da Kant a Comte, Bari 1974: 252-3). Su Locke, cf. anche J.W. Yolton, John Locke, Il Mulino 1990.

13 - Quasi a calco di questa distinzione possiamo operarne un’altra. Conosciamo storicamente due modi di tematizzare il moderno concetto di persona, in entrambi i casi facendone momento essenziale di un orientamento morale. Secondo il primo modo, la persona è depositaria di dignità a prescindere dalla sua appartenenza al gruppo sociale (che, ovviamente, può estendersi all’umanità tutta). Secondo l’altro, invece, è proprio quell’appartenenza, che dota l’individuo di valore, elevandolo a persona. Rispetto a questa problematica è utilissimo Hegel, il quale –per fare un solo esempio-, nei suoi Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft in Grundrisse, §. 25, così ironizza contro la prima concezione della persona in nome della seconda: Il mèro io, che poggia astrattamente su se stesso, la pura certezza di sé, distinta dalla verità.






Bibliografia:
Engels,Fr., Einführungen in ‘Das Kapital’ von Karl Marx, Berlin 1972.
Kolakowski, L., Main Currents of Marxism, Oxford 1987.
Marx, K., Teorie sul plusvalore.I, Roma 1951.
Marx, K. – Engels, Fr., Werke, Band 1 Berlin 1970; Band 26. 1 Berlin 1965.
Marx, K. – Engels, Fr., Werke, Band 26. 1 Berlin 1965
Napoleoni, C., Smith Ricardo Marx, Torino 1970.
Napoleoni, C., Lezioni sul capitolo sesto inedito di Marx, Torino 1972.
Ortega y Gasset, La idea de principio en Leibniz , Madrid 1979.
Pevzner, Ia., Il capitalismo monopolistico di Stato, Mosca 1978.
Platone, Opere complete, Bari 1977.
Quesnay, F., Il Tableau économique e altri scritti di economia, Milano 1973.
Roll, E., Storia del pensiero economico , Torino 1967.
Sismondi, J-C-L. Simonde, Nouveaux principes d’économie politique, Paris 1971.





Appendice 1.
Storia del termine e simili.

“Il termine «economia» deriva da Aristotele. Essa significa scienza riguardante le leggi dell'economia domestica … L'espressione en¬trò in uso all'ínizio del XVII secolo; fu introdotta dal Montchrétien, che nel 1615 pubblicò un'opera intitolata Traité de l'économie politique. L'aggettivo doveva significare che si trattava delle leggi del¬l'economia pubblica; Montchrétien si occupava infatti nella sua opera, essenzialmente, di questioni di finanza pubblica. Col tempo il termine economia politica si generalizzò, finendo per significare lo studio dei problemi della attività economica della società... E’ solo 140 anni dopo il lavoro di Montchrétien, che compare un altro titolo economia politica: si tratta dell’articolo di J.J. Rousseau sull’Enciclopedia illuministica (Kramm, 5641: 21b).
Conside¬riamo le espressioni economia politica e economia sociale come sinonimi.
Talvolta l' economia politica viene definita anche come la scienza dell’economia sociale... In Francia, in base alla tradizione iniziata nel 16I5 dal Montchrétien, il termine economia politica fu ed è ancor oggi universalmente adottato [14]...Il termine era abbastanza diffu¬samente impiegato in Polonia alla fine del XIX e all'inizio del XX se¬colo. Questo termine aveva anche sostenitori in altri paesi. In Italia, Luigi Cossa intitolò il suo saggio pubblicato nel 1891 Economia sociale. ... In Inghilterra entrò nell'uso -certamente sotto l'influsso della terminologia francese- il termine economia politica. Fu impiegato per la prima volta da James Steuart, che pubblicò nel 1767 un'opera intitolata Inquiry into the Principles of Political Economy. Secondo McCulloch, l’economia politica è la scienza di quelle leggi, che regolano la produzione, l’accumulazione, la distribuzione e il consumo dei beni necessari, utili e piacevoli. (Kremm, 5641: 23).
Dalla tradizione anglo-francese deriva appunto il termine econo¬mia politica, accolto da Marx ed Engels per la scienza che studia le leggi sociali di produzione e distribuzione dei beni; per cui Marx definì talvolta la sua opera corne critica dell'economia politica, cioè critica delle dottrine dell'economia politica classica. Da allora, il ter¬mine economia politica è impiegato universalmente nella letteratura marxista. Fa eccezione Rosa Luxemburg, la quale nelle sue lezioni di economia politica parla di scienza dell' economia nazionale (National¬ökonomie). E’ quest'ultimo il termine che, a partire dalla seconda metà del se¬colo XIX, si acquistò diritto di cittadinanza nella scienza ufficiale tede¬sca (Nationalökonomie, Volkswirtschaltslehre). Esso esprime la valuta¬zione specifica del ruolo della nazione, come fattore economico, da parte della cosiddetta scuola storica, la quale rappresentava l'indirizzo predo¬minante nella scienza ufficiale tedesca. E’ da notare che questo termine fu impiegato per la prima volta dal monaco veneziano Gian Maria Ortes nell'opera uscita nel 1774 col titolo Della economia nazionale... Da quando Alfried Marshall intitolò la sua opera, apparsa nel 1890, Principles of Economics, il termine fu accolto in sem¬pre più larga misura nella scienza accademica dei paesi anglosassoni. In questo ambiente cadde in disuso il termine economia politica im¬piegato da William Stanley Jevons (iI suo trattato apparso nel 1871 porta il titolo The Theory of Polítical Economy)...” (Lange, 1414: 25ss).


14 - Anche J-B. Say usa il termine economia politica, intesa come il modo atto a produrre, distribuire e consumare la ricchezza (Kremm, 5641: 22s). Anche Senior e J. S. Mill usano (Kremm. 5641: 23).

Stefano Garroni

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