Nessuno
veniva sgridato né minacciato.
Non
esistevano punizioni.
Ci
limitavamo a renderli tristi. Ci sembrava giusto così.
(maestro
Arnauld)
Io la mattina mi alzavo alle quattro per dire messa. Poi leggevo la bibbia per un’ora e
alle sei, con qualsiasi tempo, uscivo a
passeggiare nel parco. Dall’angolo sud, accanto al glicine, si riusciva a vedere Versailles. Non mi è mai piaciuto
guardare da quella parte, e ogni volta che ci capitavo tornavo indietro alla
svelta. - Stai scappando? – mi chiedevo, e non volevo rispondermi. Bevevo un
bicchiere di latte nella mia stanza, indossavo l’abito scuro e preparavo i
libri per la lezione. La scuola occupava una sola aula al piano terra del
convento, con le finestre che davano sul cortile interno alle spalle del parco.
Da lì passavano solo le suore e qualche prete, nulla che potesse distrarre i
bambini. Erano in tutto trenta, il più giovane aveva cinque anni e il più
grande dodici. Si chiamava Blaise, era un ragazzino molto sveglio e il
solo veramente indisciplinato. Era anche il meno triste, però, e io non sapevo
se rallegrarmene o se considerarla una sconfitta personale. Questo dubbio mi è
rimasto nei tanti anni che sono passati da allora, ma col tempo ho imparato a
sottovalutarlo. Era una domanda legittima e insensata.Adesso racconterò la
storia di Blaise e del suo maestro Arnauld, che sono io, e di Albertine, l’unica donna che ho amato in vita mia.
La principale scoperta di Port- Royal era che i bambini sono malinconici per natura e
cercano di sfuggire al fascino di quel sentimento distraendosi. A questo
servono i giochi, le monellerie, e quell’apparente spensieratezza che era la
mia principale avversaria. Il mio lavoro
consisteva essenzialmente nell’impedire ai bambini di distrarsi. C’era una
tecnica: bisognava che non fosse
mai concessa loro nessuna delle normali
soddisfazioni di quell’età. Il sistema non si basava sui divieti, ma sulle
assenze. Le cose sbagliate venivano semplicemente fatte sparire. Non si
assegnavano voti e non venivano distribuiti elogi. Se qualcuno
spiccava per intelligenza o acume, o addirittura per qualche tratto geniale,
non gli si dava alcun peso. I primi della classe non esistevano e, di
conseguenza, neanche gli ultimi. Un prato di erbe della stessa altezza e
colore.E non si giocava, a Port- Royal. Non c’era nessuna proibizione formale,
ovviamente. Era solo che ne mancava il tempo, e tutto era organizzato perché
mancasse.I giorni erano tutti uguali e non era prevista una tregua.La mattina
rimanevano in classe dalle sette all’una. Poi li si portava a mensa, dove
pranzavamo insieme e io stavo a capotavola. Dopo mangiato riposavano un’ora
nelle loro stanze. Alle tre c’era la messa. Nel pomeriggio, in primavera o nei
giorni di bel tempo, Albertine li portava nel parco per un paio d’ore. A volte
mi univo anch’io, ultimo della fila, per
il piacere di ascoltare la sua voce mentre insegnava ai bambini i nomi delle
piante. Verso le cinque tornavano nello
loro stanze e studiavano o facevano i compiti fino alle otto. Dopo cena c’era
la preghiera comune e alle nove erano già a letto. Col tempo, la malinconia
diventava una.droga potente di cui era impossibile fare a meno. I bambini la
scoprivano in se stessi come un’estrema risorsa e imparavano ad amarla e a volerne di più. Usciva da loro come un colore uniforme che
li rendeva indifferenti a tutto tranne che alle cose serie che gli insegnavo
io. Stavano attenti, studiavano ed erano
silenziosi. Quasi tutti, almeno. Blaise no.
Me l’aspettavo da lui quella domanda, e un giorno venne.
- Maestro Arnauld – mi domandò Blaise - perché non ci fate mai giocare?Avevamo appena finito la lezione
e stavamo andando a mensa.- Non è così -
risposi - chi te lo impedisce? Se
vuoi, gioca.- E con chi? Qui nessuno ne ha voglia. Non posso mica giocare da
solo come un matto.- Questo è vero, Blaise. Ma se nessuno ne ha voglia, ci sarà
pure un motivo. Che ne dici?Non volevo che gli altri sentissero il nostro
discorso. Lasciai che entrassero nel refettorio e restai fuori con lui.
Passando per ultima, Albertine mi strizzò l’occhio.- Ascolta Blaise. E’
semplice. Hai mai letto nel vangelo che Gesù da piccolo perdeva tempo a
giocare? Non mi sembra che c’è scritto. C’e scritto invece che andava a
discutere con i dottori del tempio. Ed era più piccolo di te.Blaise si mise a
ridere. Era l’unico che rideva ancora in tutta la classe.- Dai, maestro
Arnauld, non mi prendere in giro. Questo non significa niente. Nel vangelo non
ci sono scritte un sacco di cose che invece devono essere successe per forza.
Insomma, le cose ovvie. - E sarebbero, queste cose ovvie?- Bè - disse Blaise
- ad esempio non c’è mai scritto che
Gesù andava al bagno. Eppure gli sarà scappata ogni tanto. Oppure che gli
venivano le bolle o che si grattava il
naso o…- Blaise! - lo interruppi - Il
vangelo non ha il tempo di occuparsi di queste sciocchezze. - Appunto, dico. Il
vangelo racconta solo le cose importanti. Ma le altre sono avvenute lo stesso.
E’ impossibile che Gesù non giocava. Non ci posso credere.Per il momento,
pensai che era meglio piantarla lì. Gli dissi che ne avremmo riparlato e lo
portai a mangiare.- Però, Blaise – gli dissi a bassa voce – non
ti mettere a parlare con gli altri di queste cose. Dille solo a me, d’accordo?
- D’accordo – rispose – non ti preoccupare. Non ti voglio mica creare problemi,
maestro Arnauld.Ah, ecco: non voleva “crearmi problemi”. Mi offriva una
solidarietà complice, quasi da collega, non certo da allievo. Restai di sasso,
ma non riuscivo a sentirmi arrabbiato con lui. Blaise non era come gli altri,
non era triste. Ed era resistente.
Nel primo pomeriggio, verso le due, Albertine venne nella mia stanza.
- Dai – mi disse –
che non ho molto tempo. Ho detto alla madre superiora che andavo a cambiare i
fiori nella cappella.- I fiori? Albertine, siamo in novembre. Non ci sono
fiori.
- Figurati. Quella non sa nemmeno se piove o c’è il sole.
Non mette mai il naso fuori. E poi mi copre suor Angela.Mi tirai di colpo a
sedere sul letto.
- Lo hai detto a suor Angela. Non può essere. Albertine,
dimmi che non è vero.
Albertine mi coprì gli occhi con una mano. Faceva così ogni
volta che stavamo per litigare.
- Stai buono, maestro Arnauld. Non c’è pericolo. Qui dentro
io e te facciamo come ci pare. Però facciamolo presto.
Mi abbracciò e io mi dimenticai di ogni cosa per un buon
quarto d’ora. Mentre si rivestiva gli dissi di Blaise.
- Però – commentò Albertine – mica male. Bel cervellino.
- Anche troppo- dissi io – anche troppo. Non so cosa fare.
Mi sbilancia.
Albertine finì di sistemarsi
il velo. Non c’erano specchi, a Port- Royal, e si guardò nel vetro della finestra
chinandosi appena. Con le dita fece sparire una ciocca nera dalla fronte. Era
l’unica suora che avessi mai visto senza velo e la sola che mi piacesse a
prescindere.
- Il fatto è che ti
piace – disse.
- Chi? – domandai. Mi ero distratto – Chi mi piace?
- Blaise. Ti piace da morire, ammettilo. Vorresti essere
come lui. Lo sai che scrive?
- Cosa? Chi? Scrive, Blaise? E che scrive?
- Ah non lo so – disse Albertine - Ha un quaderno segreto. Lo tiene nel tiretto
dello scrittoio. L’ ho scoperto mentre riordinavo la stanza.
- E non lo hai aperto?
- Ci mancherebbe altro. Sopra c’era scritto “i miei
pensieri”. E io non faccio parte dell’inquisizione, mi sembra.
Prima di andarsene mi baciò.
- Oh – disse – che non ti venga in mente di raccontare in
giro questa storia. Era seria.
- Non ti preoccupare, Albertine. A Blaise non gli voglio
mica creare problemi.
Appena fu uscita mi
rivestii alla svelta. Dovevo dire la messa delle tre. Faceva freddo e mi
sentivo strano e triste. Mi fermai con i calzoni in mano.- Stai scappando? – mi
chiesi – stai scappando, maestro Arnauld?Ma non c’era risposta.
C’era solo un altro bambino che mi dava delle
preoccupazioni. Si chiamava Alphonse de
Cligny, aveva otto anni ed era figlio di un nobile. Se non avessimo abolito
l’istituto del primo della classe, quel titolo sarebbe toccato a lui. In aula di studio, Alphonse non mi toglieva
mai gli occhi di dosso. Credo che ricordasse a memoria ogni mia parola. Quando leggevo i suoi componimenti rimanevo
ammirato e inquieto. Aveva una grafia da bambino e uno stile da adulto. No, non
è esatto: aveva uno stile da vecchio. Davanti a quelle righe di aspetto ingenuo
e di contenuto astrattamente elevato mi sentivo perduto e mi veniva voglia di
aprire la finestra anche in inverno. Sembrava di leggere gli scritti di un nano
– prodigio.Per Alphonse il mondo e la vita non avevano più sorprese né
attrattive. “ Noi tutti - aveva scritto una volta – siamo schiavi della
concupiscenza e della stupidità. E’ per questo che l’uomo è infelice, perché
desidera senza tregua cose senza valore: la ricchezza, gli onori, gli agi, i
divertimenti.. Se capisse che tutto questo affannarsi non ha scopo alcuno, e
che l’unica cosa che conta è l’eternità, sarebbe salvo per sempre. Invece la
maggior parte delle persone cerca di
dimenticarsi dell’unica cosa certa e duratura, che è la morte, distraendosi
con le cose incerte ed effimere che il
mondo gli offre e che nulla possono contro quella. Io mi impegno a non seguire
questa strada. Voglio vivere senza mai dimenticare che devo morire.”E poi c’era
anche questo:“ Mia madre mi ha messo al mondo nel peccato. Non poteva farne a
meno. Nessuno può nascere senza che qualcun altro commetta peccato nella carne.
E’ questo il segno della corruzione
della natura umana, il vero significato
e la principale conseguenza della colpa originale. Ma per l’uomo consapevole
non tutto è perduto. Egli sa infatti che un peccato può essere cancellato da un
peccato più grande.”Erano più o meno le cose che insegnavo io, solo che Alphonse
le diceva meglio. Ma c’era anche qualcosa che non veniva da me: quell’idea che
un peccato più grande potesse annullarne uno meno grave. Era un’affermazione
strana, di sapore esoterico e di colore nero, e non sapevo spiegarmi da dove
l’avesse presa. Un pomeriggio alla fine del mese, dopo la messa delle tre, gli
dissi che volevo parlargli e lo portai nella mia stanza. Alphonse mi seguì senza dire una parola. Lo feci sedere
sull’unica sedia e io restai in piedi.-
Volevo chiederti una cosa – gi dissi, e gli mostrai il compito con quella frase
sui peccati.- Vuoi leggere da qui, per favore?Alphonse mi guardò fisso negli
occhi, poi abbassò lo sguardo sul foglio e lesse. Alla fine mi guardò
nuovamente negli occhi.- Ecco- dissi – volevo sapere da dove hai preso questa
idea. Non voglio dire che sia giusta o sbagliata. E’ un’idea come un’altra.
Niente di che. Ma da dove ti è
venuta?Niente elogi né critiche, nessuna
manifestazione di sorpresa che potesse compiacere la sua vanità.
Era lo stile di Port- Royal. Ma con Alphonse era proprio superfluo.
Alphonse non la conosceva affatto, la vanità.- Dalle scritture- rispose senza
esitare – è il sacrificio di Gesù.
L’uomo era caduto nel peccato originale e per redimerlo è stato necessario che
venisse commesso un peccato ancora più grande. Solo così poteva esserci la
salvezza.- E quale sarebbe questo peccato più grande?- gli chiesi. Avevo
paura.Alphonse mi guardo serio serio. Forse pensava che volessi esaminarlo.-
L’uccisione di Gesù, maestro Arnauld. La crocifissione. Non esiste un peccato
più grande. Ma solo così si poteva cancellare il peccato originale. E salvarci.
Quindi, il peccato più grande annulla quello più piccolo. - Ho capito Alphonse,
ora puoi andare – gi dissi, e lo congedai quasi di fretta. Restai da solo in camera qualche minuto per cercare di
cancellare dalla mia mente ciò che avevo visto. Ma non era sbagliato fare così?
Non era vietato distrarsi?Versai la brocca nel
catino e immersi la faccia
nell’acqua fredda. Mi bruciava.
Il giorno dopo, verso le quattro, andai a trovare Blaise
nella sua stanza. Entrai senza bussare, come usava a Port- Royal. Blaise girò
la testa verso di me e, con estrema
calma, infilò nel cassetto dello scrittoio un grosso quaderno sul quale stava
scrivendo. Chiuse il cassetto e si alzò in piedi.- Maestro Arnauld – disse, e
sorrise - Che stai facendo, Blaise?- Studio, maestro Arnauld. Che altro?La
penna d’oca oscillava ancora nel calamaio.- Siediti, Blaise. Voglio chiederti
di fare una cosa per me. - Certo. Con piacere.- Siediti, però. Ecco, bravo.
Stammi a sentire. Hai presente Alphonse de Cligny?- Come no. Quello che non parla mai.- Esatto.
Proprio lui. Vorrei che tu, ecco… lo facessi giocare un po’. Dopo pranzo,
magari. Invece di andare a riposare. Ti do il permesso io. Portalo nel parco e
giocate un po’. Ti va?Blaise si accigliò per un istante. Pregai che fosse
intelligente quanto pensavo. Lo era, sì.- Per me va bene – disse – anzi,
benissimo. Ma non credo che lui vorrà. Quando gli parlo a volte nemmeno
risponde. E poi a che giochiamo?- Sai giocare a nascondino? Ecco, giocate a
nascondino. Se non lo conosce insegnagli tu. Poi farò in modo di procurarvi una
palla. Giocate a palla, o a tirarvi i sassi, nel frattempo. A quello che vi
pare, Blaise. Basta che lo fai giocare. - Una palla – disse Blaise – bè,
maestro Arnauld, una palla è qualcosa. Niente male. Io ci sto. Ma speriamo che
ci stia anche Alphonse.- Sì – dissi – speriamo. Tu fai il possibile, Blaise. E
adesso studia, hai capito?- Ma certo che studio, maestro Arnauld. Che altro dovrei
fare?Uscii dalla sua stanza sentendomi un traditore. Non sapevo cosa avevo
tradito, ma in ogni caso non mi dispiaceva averlo fatto. In quel momento
desideravo stare solo con Albertine, ma chissà dov’era.Scesi nel parco e
camminai fino al glicine. La campagna
era coperta di nebbia, Versailles era
invisibile. Il parco aveva i colori e la serietà dell’inverno. Pensai a
Alphonse e a quel disgraziato di Blaise e pregai quel nostro strano e invisibile dio, che ci univa e ci
divideva tutti, di dare una mano. E alla
svelta, maledizione.
Mi capitò una cosa che prima non era mai successa: durante
le lezioni mi distraevo e perdevo il
filo. Forse la maggior parte dei bambini non se ne accorgeva, ma Blaise e
Alphonse sicuramente sì. Una volta confusi le lettere di san Paolo con
l’Apocalisse. E poi mi sfuggì una frase infelice.- “Preferisco la misericordia
al sacrificio” – dissi citando il vangelo – ricordatevelo, ragazzi. Blaise,
Alphonse e anche gli altri. Qualche volta andate a giocare. Divertitevi un pò,
ogni tanto Non è mica peccato. Davvero, non lo è, credetemi.Non ci furono
repliche né domande. D’altra parte, non era nello stile di Port- Royal
interloquire durante le lezioni. E io avevo preoccupazioni di tutt’altro genere
per angustiarmi troppo di quei dettagli.
Una mattina, molto
presto, venne a cercarmi l’assistente del Rettore. Mi stavo ancora
vestendo. - Maestro Arnauld, scusate per l’ora- mi disse- ma sua eccellenza
vuole parlarvi subito.Monsignor Duprè mi
aspettava nel suo studio. Accanto a lui, in piedi, c’era la madre superiora.
Non aveva espressione e non mi guardava. Temetti il peggio. - Maestro Arnauld –
disse il rettore – accomodatevi. Solo due minuti, non voglio sottrarvi al
vostro lavoro. Sedetti di fronte a lui, dall’altro lato dell’enorme tavolo
intarsiato. - Vengo subito al punto – disse monsignor Duprè – E il punto è
questo: ieri pomeriggio, alle due e mezza, la madre superiora, passando per
caso davanti a una finestra della cappella, ha notato che nel parco c’erano due
allievi. Alle due e mezza, maestro Arnauld. Quella è l’ora del riposo
pomeridiano. O no?- Certo – risposi – dalle due alle tre.- Perfetto- Duprè si
passò un dito sotto al naso – perfetto. Non dubitavo. Ora, la madre ha subito
incaricato un degli istitutori di verificare quello che stava succedendo. I
ragazzi, a quanto pare, avevano un comportamento assai singolare. Uno dei due,
quello un po’ strano, come si chiama? ma sì, Blaise, era inginocchiato dietro
un cespuglio. L’altro, e sto parlando di Alphonse de Cligny, il figlio di
monsieur de Cligny, aveva un braccio
poggiato sul tiglio e la faccia premuta contro il braccio. Sono stato chiaro?-
Ma certo – dissi – forse stavano giocando.- Naturalmente – disse Duprè – questo
l’abbiamo capito tutti. E a che stavano giocando?- Non so. A nascondino, a occhio e croce. Almeno credo.-
Esatto. Complimenti, maestro Arnauld. Proprio a nascondino. E’ quello che ci ha
detto Alphonse de Cligny quando l’abbiamo interrogato.Lo guardai.- L’avete
interrogato? E perché ?- Come perché?
Per sapere cosa stavano facendo.- E cosa stavano facendo?Il rettore si
mise a ridere e guardò la madre superiora. Un lieve oscillare del busto mi
rivelò che forse rideva anche lei. Non riuscivo a vederle gli occhi.- Maestro
Arnauld – disse il rettore sempre ridendo – ma ce l’avete appena detto voi.
Stavano appunto giocando a nascondino. - Certo – dissi – a nascondino. E
allora? Cioè, Monsignore, con tutto il rispetto: perché lo viene a dire a me?
Se i ragazzi hanno mancato non è colpa mia. Io sono il loro maestro, non il
loro guardiano. C’è altro personale per questo. Il rettore smise di ridere e
picchiò una mano sul tavolo.- Il fatto è
– disse serio – che siete stato voi ad
autorizzarli. Ce l’ ha detto Alphonse de Cligny. E a lui l’aveva detto quel,
come si chiama? ah sì, Blaise. Guardi,
non so cosa sia successo e non so perché sia successo. Voi , maestro
Arnauld, siete un ottimo insegnante, ma questa volta avete sbagliato. In buona
fede, ne sono sicuro, ma avete sbagliato. Avete permesso ai ragazzi di
contravvenire alle regole. Avete creato un tempo libero che non ci deve essere.
Port- Royal non è un asilo infantile. Qui non si gioca. Si girò un momento
verso la madre superiora e poi tornò a guardarmi negli occhi.- Lo so- dissi –
ma questa volta è diverso. Anzi, forse ho colpa di non averne parlato subito
con lei ma…insomma, pensavo che con un po’ di svago…innocente, Alphonse
magari…Mi interruppi. Non stavo dicendo niente. Duprè aspettava con aria
perplessa.- Alphonse de Cligny – dissi – non sta bene. Ha scritto delle cose
che mettono i brividi. Bisogna aiutarlo. Forse è il caso di avvertire il
padre.- Alphonse de Cligny è in ottima
salute – disse Duprè – e ho letto
anch’io i suoi componimenti. Se non fosse contrario allo stile di Port – Royal,
lo proporrei per una nota di
merito. Certi allarmismi sono fuori
luogo, maestro Arnauld. Comunque – concluse – i ragazzi hanno capito l’errore.
E non lo ripeteranno. In ogni caso, la vostra autorità non è stata messa in
discussione. Alla fine, hanno ammesso entrambi di aver frainteso.- Di aver
frainteso – ripetei.- Esattamente – disse Duprè – e mi raccomando, non prendete
altre iniziative del genere senza consultarmi. Anzi, non ne prendete affatto. Sono stato chiaro, maestro Arnauld?Mi
alzai, mi inchinai senza rispondere e uscii da quel posto infame. Mi aspettavo
di essere accusato per via di Albertine, certo, e sarebbe stata la fine. Ma
quello che era successo era assai
peggio. Raggiunsi l’aula e cominciai la lezione.
Nei giorni seguenti feci il possibile per evitare Blaise. Non avevo il coraggio di
guardarlo negli occhi. Sapevo che Blaise era perfettamente in grado di capire quello che era successo e che non ce
l’aveva con me. Ma ero io che mi sentivo
un vigliacco. Mi domandavo anche cosa
stava capitando ora nella testa di Alphonse, e quanto male
gli avevano fatto, quanto gliene avevamo fatto tutti quanti, me compreso. E
avevo paura. Un pomeriggio di sole, mentre i bambini erano nel parco con
Albertine, raggiunsi la stanza di Blaise. Mi sedetti al suo scrittoio, che mi
andava piccolo, e tirai fuori il famoso
quaderno. Lo lessi da cima a fondo due volte. Blaise era salvo, senza alcun
dubbio. Su di lui non avevamo potuto nulla. Era ironico, sereno, libero. E
geniale. Sentii qualcosa di caldo fluirmi nel petto. Port- Royal e quel
ragazzino si fronteggiavano ma non ad armi pari, perché il più forte era
lui.Ricordo una frase che mi fece particolarmente bene.“Se dio c’è – aveva
scritto Blaise – non può essere quello che ci insegnano qui. Se dio c’è, sta
altrove. Dio non è un allievo di Port.- Royal. Se lo fosse, non potrebbe essere
dio. Dio non perderebbe tutto questo tempo a parlare continuamente di sé. Ogni
tanto, parlerebbe anche di qualcun altro.”E poi quest’altra:“M.A. è una brava
persona. Non è come gli altri. Non ha mica il culo incollato alla sedia.E’ uno
di quelli che a un certo punto prendono e se ne vanno.”Ottimo, Blaise, figlio
mio.
Non successe più nulla fino all’antivigilia di Natale. I
bambini aspettavano la festa con indifferenza e serietà, nello stile di Port -
Royal. Il ventitre dicembre scesi nel
parco la mattina presto, raggiunsi il glicine, guardai Versailles, mi feci una
domanda senza risposta e alle otto ero in classe. Cominciai a fare
l’appello ma mi interruppi subito. Il posto di Alphonse era vuoto.-
Qualcuno di voi ha visto Alphonse de Cligny? – domandai.I bambini si guardavano
l’un l’altro senza dire niente. Poi Blaise si alzò e si avvicinò alla
cattedra.- Stamattina sono passato a prenderlo in camera sua – mi disse – lo
faccio sempre da un po’ di tempo. Ma lui non c’era.- E perché non mi hai
avvisato subito? - Perché non sono una spia, maestro Arnauld.E tornò al suo
posto.Feci chiamare un istitutore, gli dissi di badare alla classe e uscii a
cercare Alphonse.Salii di corsa nella sua stanza. C’era già stato Blaise e
quindi era inutile, ma forse volevo solo perdere tempo. La camera era in
ordine, il letto già rifatto, i libri e i quaderni ancora sullo scrittoio. Li
sfiorai con le dita. Tornando via, aprii
a caso la porta di qualche altra stanza, meccanicamente, senza aspettarmi di
trovarci niente, e non le richiusi.Forse era il caso di avvisare Duprè,
pensavo, o Albertine, ma nello stesso tempo mi dicevo che in un caso o
nell’altro sarebbe stato uguale e senza scopo. Mi affacciai ancora un momento dall’aula
di studio, ma l’istitutore mi guardò e
scosse il capo. Allora, riattraversando il
cortile interno, uscii nel parco. Fuori era molto freddo, le piante
erano bianche e immobili e forse già morte nella gelata. Camminai per un po’
sulla neve guardandomi intorno.Mi ricordai di quando avevo promesso a Blaise di
procurargli una palla.E mi venne in mente una parola, l’unica parola naturale
detta da Duprè quando ci avevo parlato.
Cominciai a correre. Tagliai fra i
sentieri, calpestando il roseto e l’orto
disabitato, e mi immersi fino alle caviglie nello stagno delle ninfee. Poi
attraversai delle spine , qualcuna mi graffiò la faccia, scivolai sul ghiaccio
e sentii un gran male al ginocchio. Quando mi rialzai lo vidi.
Il tiglio era l’albero più alto
del parco, stava quasi al centro, fra cespugli di malva e ortica. Era grande e
spoglio, usciva nero da tutto quel bianco come un fiammifero spento.Alphonse
era lì, seduto con la schiena appoggiata al tronco e le
gambe allungate. Aveva la testa abbassata.- Alphonse – chiamai.La neve era
caduta dai rami e gli era finita in testa, formando una calotta banca che gli nascondeva i capelli. Mi abbassai per
guardarlo in viso. Il ginocchio mi bruciava forte.- Alphonse, che ci fai
lì?L’occhio destro era otturato dalla neve.
L’altro era aperto e fissava qualcosa fra le gambe. Ma non c’era
niente.- Alphonse.Gli presi una mano. Era coperta di brina.Subito dopo
cominciai a urlare e in un attimo il parco si riempì di gente.
Il medico mi fece un impacco d’erbe per il ginocchio e mi
ordinò delle tisane. Passai natale a letto e in quei tre giorni non vidi
nessuno, tranne una suora che mi portava da mangiare e mi cambiava l’impacco.
Avevo l’impressione che di notte chiudessero la porta con la chiave. Nelle
tisane c’era qualcosa che mi faceva dormire. Ogni tanto pensavo ad Albertine.Il
ventisette mi svegliai presto e provai a mettermi in piedi. Potevo camminare,
anche se zoppicavo un po’. Mi vestii lentamente. Alle sette venne la suora a
portarmi il latte e la tisana del mattino. Si stupì di trovarmi già
vestito. La ringraziai e le dissi che
potevo fare da me. Ma dovetti insistere.- Grazie, sorella – dissi – sto meglio.
Ce la faccio. Davvero, può andare,Indugiò ancora mentre io la guardavo a
braccia conserte. Alla fine si ritirò di malumore.Bevvi il latte e versai la
tisana giù dalla finestra. Il freddo era intenso e attorno era ancora tutto
pieno di neve. L’orizzonte della campagna era sprofondato nella nebbia.Alle
otto bussarono alla porta e Duprè entrò senza aspettare che dicessi avanti. Con
lui c’era la madre superiora.Mi abbracciò.- Come va? Maestro Arnauld…La suora
fece un minuscolo inchino con la testa senza dire niente.Duprè sedette sul
letto ancora disfatto. Io restai in piedi.- Ho saputo che stava un po’ meglio- disse
– ma volevo vedere di persona. Gli risposi che stavo bene e che ero guarito.-
Bè - disse Duprè con un breve sorriso – questo magari lo lascerei decidere al
medico. Lo faccio venire subito.E si girò vero la madre superiora.- La
ringrazio – dissi – ma non ce n’è bisogno. Mi sono riposato in questi giorni.
Non ho fatto che dormire. Ora mi sento in forma. Sul serio, monsignor Duprè,
non si preoccupi.E lo informai che alle nove volevo dire messa nella
cappella.Percepii un lieve movimento della madre superiora. Se avesse avuto una
qualsiasi espressione, poteva essere rabbia.- Questo è lodevole da parte sua –
disse Duprè – ma…insomma maestro Arnauld, con la gamba in quelle condizioni, e
poi… insomma, la faccenda di Alphonse ha avuto degli strascichi. Lei non c’entra,
per carità, questo noi lo sappiamo, ma monsieur de Cligny ha preteso dei
chiarimenti. E’ un uomo importante. Ha molte conoscenze a corte. Mi colpirono le parole “faccenda” e
“strascichi”. Mi sembravano simili al rumore dei chiodi sulla bara di Alphonse,
che non avevo sentito.- Per quanto mi riguarda – dissi – sono pronto a
prendermi tutta la colpa. Alphonse si è ucciso a causa delle cose che gli
insegnavo io.- Ucciso? – monsignor Duprè scatto in piedi – maestro Arnauld, ma
che sta dicendo? Alphonse è morto di polmonite. Il medico è stato chiarissimo
su questo punto. Si era avventurato fuori per giocare e non si è reso conto del
freddo. Era anche vestito leggero. Il freddo lo ha…ecco, lo ha addormentato. E
poi una polmonite fulminante. Così ha detto il medico. Duprè era rosso in
volto. Afferrò la ciotola vuota del latte.- L’ ha bevuto questo? – mi
chiese.Risposi di sì.- Bene. Allora adesso vorrà riposare. Maestro Arnauld, io
capisco che tutto ciò l’abbia terribilmente addolorata. E chi ci vorrà tempo perché
lei recuperi la sua…lucidità, ecco. Tutti, tutti siamo sconvolti, a Port-
Royal.. E le siamo vicini. Aspetti ancora qualche giorno, dia retta a me. .Si
riprenda del tutto. E preghi, certo, preghi. La preghiera aiuta. Ma per ora,
niente messe né lezioni.Si alzò- Ormai è quasi tutto chiarito – aggiunse senza
guardarmi – la colpa è unicamente dei sorveglianti. Non si sono accorti della
fuga di Alphonse. Forse dormivano, non lo so. Ma era già successo, ricorda?
quando Alphonse e quell’altro, ma sì, Blaise erano usciti nel parco a giocare a
nascondino. Lei stesso mi disse che la responsabilità era del personale di
sorveglianza. E aveva ragione. Anche se li aveva autorizzati lei. L’inchiesta è
ancora in corso. Ma secondo me, in due o tre giorni risolviamo tutto.
Coraggio.Mi battè una mano sulla spalla e uscì. La madre superiora lo seguì
senza fare un gesto.Non chiusero la porta a chiave, ma tanto era inutile.
Stavano facendo un ottimo lavoro. Ancora due o tre giorni, e Port- Royal
sarebbe tornato alla normalità. Mi domandai chi avrebbe fatto lezione ai
ragazzi nel frattempo. Duprè, sicuramente. O la madre superiora. Ma parlava,
quella? A parte quando doveva fare la spia, naturalmente. Mi stesi sul letto.
Avevo una voglia furiosa di stare con Albertine. E mi dispiaceva non poter dire
messa. Non che significasse qualcosa in sé, ma era l’ unica cosa che mi veniva
in mente per fare finta, almeno per un po’, che Alphonse non fosse morto.
… da due giorni non riuscivo a incontrare Albertine. Il
terzo giorno si presentò in camera mia verso le tre. Entrò senza bussare.-
Albertine, devo dire messa.- La dici dopo. La messa può aspettare. Io ho solo
dieci minuti.Ma erano più che sufficienti. Dopo, avevo ancora voglia. Cercai di
nuovo i suoi seni.Albertine mi fermò la mano e me la strinse. Sembrava diversa
dal solito.- Ascolta – disse – ascolta bene quello che ti dico. Te lo dirò una
volta soltanto.La sua mano era fredda. Chinò la testa sulla mia mano.- Mi vuoi
sposare? Maestro Arnauld, mi vuoi sposare? Rispondimi. O sì o no. Rispondimi ora.- Sì – dissi – ti
voglio sposare. Certo. Lo sai. Ma io sono un prete e tu una suora. Non è una
novità. Dura da un sacco di tempo. Siamo stati anche bene qui. Cosa vuoi che
faccia? Vuoi che scappiamo da Port- Royal ? Vuoi che lasciamo tutto?Albertine
si vestì di fretta. Non disse più nulla fino a quando non si fu sistemata il
velo guardandosi nella finestra. Poi si voltò verso di me. Sì – disse – non me
ne importa più. Questo è un cimitero. Io non ho voglia di farmi seppellire qui,
è troppo presto per me. Tu fai come vuoi. Ma vieni con me, maestro Arnauld,
amore mio. E’ meglio così. Te lo giuro. Ci aiuta Angela.- Suor Angela? Che
c’entra suor Angela?- Non c’è più suor Angela. Non ci sono più suore a Port –
Royal. Sono scappate tutte con i loro uomini. Pensavi che io e te fossimo gli
unici amanti qui dentro? Povero scemo. Ora se la spassano a Parigi. Angela
viene stasera a prenderci con una carrozza.- E Duprè? – dissi – Quello ci cerca
fino in capo al mondo.Angela scoppiò a ridere e non si fermava più. Non
riusciva a trattenersi, si agitava tanto che a un certo al punto il velo si
staccò e cadde in terra, ma lei non lo raccolse. Allora mi meravigliai di quanto fossero
diventati lunghi i suoi capelli. Le arrivavano alla cintura. - Duprè – disse –
se n’è andato anche lui. Con la madre superiora. Ora vivono a Marsiglia. Lui
gestisce un bordello. Lo faceva anche prima, a quanto pare.- E tutti gli
altri?- Svegliati , Arnauld. Qui non c’è più nessuno. Ci siamo rimasti solo
noi. Vieni a vedere.E spalancò la finestra.Fuori c’era un sole immenso, che
riempiva la metà del cielo. Il parco era affondato nella luce e nel calore. Le
piante e gli alberi erano secchi, bruciati, e tutto era morto. Vidi dei cani
rotolarsi nello stagno secco delle ninfee e poi mordersi l’un l’altro con
furia, come se avessero fame di se stessi. - Com’è possibile – dissi – in così pochi giorni. E anche i tuoi
capelli. - Non sono pochi giorni – rispose Albertine – è tutta la vita. E i
miei capelli sono così perché non li ho più tagliati. Sono dieci anni che non
li taglio. Se una cosa la lasci perdere, cresce.Guardai ancora nel parco. C’era
qualcuno. Stava seduto sotto il tizzone spento dell’albero di tiglio. Aveva un
cappello bianco e giocava con una palla facendola rimbalzare accanto a sé.- Ma
quello è Alphonse – gridai – Alphonse! Allora non è vero che è morto! Sta
giocando con la palla di Blaise. Alphonse!Mi sporsi dal balcone e lo chiamai
ancora. Agitavo le braccia verso di lui, lo volevo prendere in
braccio.Albertine mi afferrò per la spalla.- Piantala Arnauld, sei patetico.
Alphonse è morto stecchito.- Ma se è lì – gridai – non lo vedi che è lì?
Alphonse!- Sì che lo vedo. E’ l’unico rimasto. E’ un morto, ed è il guardiano di Port- Royal. Perciò sta lì.
Andiamo via prima che si accorga di noi, Arnauld. Ce l’ ha a morte con noi. -
Lo so. E’ stata colpa mia. Sono stato un vigliacco. Dovevo difenderlo. - Questo
non c’entra niente, scemo – disse Albertine – ce l’ ha con noi perché qui
dentro io e te ci siamo anche trovati bene. E questo che non sopporta. E se ci
trova ci mangia vivi. Li hai visti i cani?Io mi girai verso di lei. Albertine
aveva i capelli tutti bianchi, e le rughe…
Mi svegliai tutto bagnato e feci una gran fatica per
rimettermi a respirare. Nella stanza era quasi buio, doveva essere pomeriggio
tardi. Avevo freddo. Insomma era nel latte, maledizione, non nelle tisane,
quelle erano a posto. Mica stupidi, però.Mi alzai e accesi il lume ad olio. Mi sciacquai la faccia nel
catino. Il ginocchio andava molto meglio. Recuperai il respiro normale. Avevo
fame. Provai la maniglia e vidi che la porta era aperta. Mi avviai lungo il
corridoio, orientandomi sulla mia ombra alla luce fioca delle candele, e scesi
nel refettorio.Era ancora presto per la cena, la sala era vuota, ma avevano già
apparecchiato. Sentivo rumori dalla cucina. Mi sedetti al mio posto, a
capotavola.- Voglio mangiare – dissi ad alta voce. Una suora venne fuori dalla
cucina. Mi sorrise.- Maestro Arnauld – disse – che ci fa qui? E’ presto. Se
torna in camera, le porto subito qualcosa.- No – dissi – voglio mangiare qui.
Adesso. Per favore, sorella. Quello che c’è. Un po’ di carne magari. E del
vino. - Vino ? – fece la suora – Ma non abbiamo vino, quando mai? Maestro
Arnauld, torni in camera, la prego. Non mi faccia avere dei guai.Mi voltai a
guardarla. Era giovane, sicuramente una novizia, erano loro a fare servizio in
cucina.- Non è vero che non abbiamo vino. Quando dico messa, secondo lei cosa
ci metto nel calice? Vada in cappella e prenda il vino della messa. Ce n’è un
piccola botte nella sagrestia. Oppure,
in camera di monsignor Duprè. O nella cella della madre superiora. Loro ne
hanno. Ma se ha paura, ci vado io. - Maestro Arnauld… - disse la suora.- Va
bene – dissi – lasciamo perdere il vino. Ma mi porti la carne. E il pane. E l’
acqua, per favore.Dopo cinque minuti mi portò un piatto di arrosto e una
pagnotta. Poi tornò con una caraffa d’acqua. Mangiai di buon appetito,
masticando con piacere la carne ben cotta e accompagnandola con il pane.
Insomma, ero l’unico. Port- Royal era tutta sulle mie spalle. Port –Royal ero
io. I vivi e i morti dipendevano da me.
Mi avevano lasciato insegnare perché ero il più bravo e avevano fatto i loro
conti. Io formavo i bambini, li addestravo ad essere dei futuri maestri
Arnauld. E anche loro, da grandi,
avrebbero trovato un compromesso, una distrazione o un compenso supplementare
alla teologia e alla devozione sotto forma di un’Albertine o di un’Albert, a
seconda dei gusti. Ma questo non aveva importanza. Tutti abbiamo le nostre debolezze.
La salvezza non viene dalle buone azioni, ma dalla fede. Pecca più forte che
puoi, e credi più forte che puoi. E nelle pause fotti, perché no.I bambini
erano tristi: e allora? Da grande
sarebbero diventati uomini seri e attenti. Gente che guardava al sodo, come
Duprè e la madre superiora. Polmonite, non dolore. Gli Alphonse sarebbero sempre esistiti,
quelli che prendono tutto alla lettera e si macerano sui versetti . Tipi di
quel genere distruggono se stessi, mica
gli altri. Non servono e danno noia. Meglio se si fanno fuori da soli, a un
certo punto. Così che l’esigua e utile stirpe dei maestri Arnauld possa ancora
prosperare su questa terra fino alla
fine dei tempi.
Mangiai tanta di quella carne e tanto pane che alla fine
uscii nel parco e vomitai tutto. Il freddo mi fece bene. Tornai nella mia
stanza, bevvi un sorso d’acqua dalla brocca e poi andai a cercare
Albertine.Entrai nel convento. Le suore mi guardavano con spavento. Ne fermai
una.- Dov’è Albertine?Tirò indietro le braccia e scappò via.Nessuna mi
rispondeva, si limitavano ad appiattirsi verso il muro quando passavo. -
Insomma, dov’è Albertine ? gridavo.A una svolta del corridoio incontrai la
madre superiora.- Maestro Arnauld – mi disse senza espressione nella voce –
esca subito. Lei non sta bene. Ora faccio chiamare il medico.- Vuole che faccia
una gita sotto la neve come Alphonse ? – dissi – Dov’è Albertine?Non rispose
più nulla. Rimase immobile con le mani strette sotto la tonaca.Me la lasciai
alle spalle e continuai a percorrere i corridoi
chiamando Albertine.- Albertine!Le porte delle celle si aprivano e si
richiudevano subito , uno sguardo e via. Il colore bianco e grigio dei veli.
Almeno, stavo facendo qualcosa che non avrebbero dimenticato. - Albertine!In
ultimo venne fuori dalla sua cella, che non avevo mai visto, al secondo piano.
Sembrava che uscisse per caso e senza fretta. Camminava verso di me come se io
non ci fossi. Le misi le mani sulle spalle per fermarla.- Ti sono cresciuti i
capelli? – le chiesi – E’ una settimana
che non ti vedo. Vuoi sposarmi?Le mie parole mi sorpresero. Non pensavo che le
avrei domandato proprio quello,Albertine mi guardò con un sorriso terribile.
Era molto bella.- Ciao, maestro Arnauld. Ma che straordinaria trovata. Ottimo,
non potevi fare di meglio. Tu proprio non ci sai stare al mondo, è vero? Ma io
sì.Lo disse sussurrando e durò due secondi al massimo. Poi mi scansò e
scomparve. Nessuno l’aveva sentita. Non la inseguii. Continuai a camminare fino
alla scala che dava all’esterno, spalancai la porta con un calcio e tornai nel parco. Stavo scappando.
Non ho più saputo nulla di Blaise. Recentemente, mi è
capitato fra le mani un libro di un autore che porta il suo nome con un cognome
diverso. L’ ho letto, e ho fantasticato a lungo che si trattasse di lui. E’ un
libro di successo. Questo Blaise è stato a Port- Royal, non c’è dubbio. E se
invece non c’è stato, è riuscito ad immaginare ciò che noi eravamo con una
precisione e una lungimiranza che solo i grandi
scrittori possono avere. Perciò, potrebbe trattarsi proprio del mio
Blaise.Il libro mi fa compagnia tutti i giorni, ormai. La mattina, quando
scendo al porto a fare la mia solita passeggiata, lo infilo nella tasca del
cappotto. Amburgo è una bella e strana città . Ti lasciano vivere e non ti
danno tropo fastidio. Io mi guadagno da vivere insegnando il francese ai figli
dei commercianti di qui. Non mi vogliono né bene né male. Gli sono utile, ecco
tutto. Mi pagano regolarmente e ogni tanto mi regalano un tacchino o una pollastra. In cambio, io leggo loro
qualche passo del libro, quando li vedo troppo stanchi. Si divertono ad
ascoltarmi. Ma leggo quasi sempre le stesse frasi.Ad esempio dove dice: “il cuore ha delle ragioni che la ragione non
conosce.” Ci torno su di continuo e poi dico:- Ragazzi, il cuore: che parola scema, non vi sembra. Cosa ne
pensate?- Ach, Meister!E I bambini
ridono, forse per farmi piacere, forse
perché sono vecchio e un po’ scemo. O perché sanno che subito dopo li mando
fuori a giocare.
Nessun commento:
Posta un commento