lunedì 30 marzo 2015

Encomio della scuola pubblica - Pietro Cataldi





Chiunque manchi di impegnarsi perché la scuola (e
l’università), la giustizia e il sistema sanitario pubblici e di massa
funzionino meglio, e in nome delle loro manchevolezze a volte anche gravi si
creda legittimato a ridurne lo spazio, non lavora per il bene dell’umanità e
per il suo “progresso” reale ma per interessi diversi, di individui singoli
magari, ma non certo dell’universale umano e dell’universalità degli umani.


Due modelli di scuola pubblica di massa:
Il primo modello, che possiamo genericamente chiamare
democratico, è quello di De Sanctis, di Calamandrei, di don Milani e di molti
altri, e vede nella scuola il luogo in cui i bambini e gli adolescenti
diventano liberi cittadini. Secondo questo modello la scuola non serve a
preparare al mondo del lavoro, non serve, o serve solo secondariamente, a
imparare un mestiere, ma serve ad avere idee personali, a conquistare le
facoltà intellettuali per elaborare un pensiero proprio, per prendere posizione
sulle grandi questioni, anche politiche, per partecipare attivamente alla vita
collettiva, così come la nostra Costituzione chiede ai cittadini quando, nel
primo articolo, dichiara che «la sovranità appartiene al popolo». Ora, quale
sovranità potrebbe mai essere quella che appartiene a un popolo di ignoranti,
di cittadini dotati del potere teorico di scegliere ma non della capacità di gestirlo?

Accanto a questo progetto democratico di scuola come luogo
di formazione del cittadino e dunque del sapere critico, non è mai venuto meno
un modello assai diverso, portato a vedere nella scuola uno strumento del
mercato, e dunque un’anticamera del lavoro. Questa concezione implica la
rivendicazione di un legame con il mondo delle imprese, spesso inteso quale
subalternità dei percorsi didattici alle esigenze del mondo del lavoro.
Relegato nei gradi più bassi dell’istruzione nei modelli postunitari e poi
nella struttura scolastica voluta da Gentile durante il fascismo, e sconfitto
negli anni Sessanta, questo modello ha ripreso vigore nel corso degli anni
Ottanta, divenendo a poco a poco quello dominante, fino agli esiti letali del
berlusconismo fra gli anni Novanta del Novecento e questa prima parte del nuovo
secolo. Questo nuovo modello, tristemente condiviso in modo trasversale dalle
forze politiche, come è caratteristico del berlusconismo, ha puntato
sull’autonomizzazione economica delle scuole, cioè sul disinvestimento pubblico
di risorse; ha puntato sull’efficienza economica, cioè sulla rinuncia a
spendere per fare della scuola la sede di un riequilibrio sociale; ha
valorizzato in ogni modo i principi oggettivi della valutazione, verificando e
non combattendo la disparità fra gli eguali, facendo cioè ricadere sulle
vittime delle inadempienze sociali il peso della disparità anziché farsene
carico, come intendeva fare la scuola democratica; ha costruito un asfittico
codice culturale fatto di crediti, debiti, offerta formativa, mirando non più
alla preparazione del cittadino ma alla creazione di forza lavoro adeguata al
mercato, secondo una prospettiva tanto più assurda e perfino irridente negli
anni della disoccupazione giovanile dilagante.

Il modello di umanità che si esprime da questa logica
aggiorna il concetto gramsciano di «gorilla ammaestrato», e contribuisce alla
«colonizzazione dell’inconscio» della quale ha parlato lo statunitense Fredric
Jameson, il maggiore studioso della cultura postmoderna. 


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