domenica 23 gennaio 2011

Bertolt Brecht - Lode del Comunismo -

‘’ È ragionevole chiunque lo capisce. È facile.
Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere.
Va bene per te, informatene.
Gli idioti lo chiamano idiota e, i suicidi, suicidio.
È contro il sudiciume e contro l’idiozia.
Gli sfruttatori lo chiamano delitto.
Ma noi sappiamo: è la fine dei delitti.
Non è una follia, ma invece fine della follia.
Non è il caos, ma l’ordine, invece.
È la semplicità che è difficile a farsi''. 

Bertolt Brecht - ma potrebbe andar bene anche per la attuale situazione cubana o, per altri versi, cinese -

La parabola di Mi-en-leh dell’ascensione di alte montagne

Quando i fabbri d’aratri e i contadini poveri ebbero conquistato il potere con l’aiuto di Mi-en-leh, non pote­rono realizzare subi­to tutti i loro piani. La loro avanzata sembrò arrestarsi e qualche volta dovettero perfino arre­trare di qualche passo. Questo spet­tacolo riusciva insop­portabile a molti che vi assistevano da lontano. Ogni vol­ta che i fabbri d’aratri sotto la guida della Lega dei prole­tari di Min-en-leh subivano uno scacco, o, per evitare di subirne uno, rimandavano un progetto, gli spettatori in­tonavano un coro di urla, gridando che i fabbri tradivano i loro principi e che la Lega lasciava le cose come erano. Costoro consideravano i rivolgimenti come un atto che avviene in una sola volta, all’incirca come il salto di un crepaccio, che o riesce o non riesce, e se non riesce am­mazza chi ci si è provato.
Mi-en-leh disse:
Immaginiamoci un uomo che volesse salire su un mon­te altissimo, scosceso e finora inesplorato. Supponiamo che, dopo aver superato inaudite difficoltà e pericoli, sia riuscito a salire molto più in su dei suoi predecessori, ma non abbia ancora raggiunto la cima. Si è trovato in una si­tuazione in cui avanzare ancora nella direzione voluta non era solo difficile e pericoloso, ma semplicemente impossi­bile. Ha do­vuto tornare sui suoi passi, scendere in basso e cercare nuovi tracciati, forse più noiosi, ma tali da offri­re la possibilità di rag­giungere la vetta. Senonché il di­scendere da questa altezza, mai finora attinta in tutto il mondo, a cui si trovava il nostro imma­ginario alpinista, importa più pericoli e difficoltà dell’ascesa: in discesa si scivola più facilmente, è più difficile vedere bene i punti in cui si mettono i piedi. In discesa non si prova più l’en­tusiasmo di quando ci si muoveva verso l’alto, dritti verso la vet­ta. Bisogna legarsi con la corda, si perdono delle ore a scavare con la piccozza i punti cui assicurare saldamente la corda. Biso­gna muoversi con la lentezza di una tartaru­ga continuando a scendere, allontanandosi dalla mèta e senza vedere se questa perico­losa e tormentosa discesa terminerà con la scoperta di un buon tracciato con il qua­le si possa tornare a spingersi più sicuramen­te, più rapi­damente e direttamente in avanti, in su, verso la mèta, verso la vetta.
Non è naturale supporre che l’uomo in questa situazio­ne, benché prima fosse salito ad altezze inaudite, attraver­si dei momenti di sconforto? E certo questi momenti sa­ranno più frequenti e più difficili da attraversare quando egli ode voci dal basso, voci di chi da prudenziale distan­za contempla col cannocchiale quella pericolosa discesa, la quale non può essere chiamata < frenata > perché la fre­nata presuppone una vettura già collaudata in preceden­za, una strada ben sistemata, un meccanismo già speri­mentato. E qui non c’è vettura, non c’è strada, nulla, pro­prio nulla che sia stato sperimentato prima.
Dal basso si odono voci di malevola soddisfazione. Gli uni esprimono apertamente questa soddisfazione gridan­do: Tra un po’ cadrà giù! Gli sta bene, a quel matto! Gli altri si ingegnano di celare la loro soddisfazione agendo se­condo il modello di Juduska Golovlev. Essi guardano in alto con occhi mesti e gemono: Purtroppo i nostri timori si sono rive­lati fondati. Non abbiamo forse impiegato tut­ta la nostra vita a elaborare il giusto piano per l’ascensione di questo monte? Non abbiamo chiesto che si rimandasse l’ascensione fino a che avessimo terminato di mettere a punto il nostro piano? E quando lot­tavamo così appassio­natamente contro il tracciato che ora viene abbandonato anche da questo povero stolto (ecco, guardatelo, torna in­dietro, scende, si arrovella delle ore intere per regredire di qualche pollice, e a noi ci ingiuriava con i peggiori epiteti quando invocavamo sistematicamente moderazione e pre­cisione), quando condannavamo così aspramente questo mentecatto e diffidavamo ognuno dal dargli aiuto e soccor­so, lo facevamo esclusivamente per amore del grande pia­no d’ascensione della montagna, acciocché questo grande piano non venisse compromesso.
Per fortuna l’alpinista nelle condizioni date nel nostro esempio non può sentire la voce di questi “veri amici” dell’idea dell’a­scensione, altrimenti gli verrebbe la nausea. E si sa che la nausea non è propizia alla lucidità della testa e alla saldezza dei piedi, in ispecie a grandi altezze.

lunedì 17 gennaio 2011

Wang Hui: la dialettica di autonomia e apertura - controlacrisi.org -

http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=10369&catid=39&Itemid=68

la determinazione del saggio del salario - Karl Marx (Dai Manoscritti economico filosofici del 1884. 1° manoscritto)

(...)* Il sostentamento dell'operaio durante il lavoro,
in piú quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia
e la razza degli operai non vada estinta, è determinato
dal minimo saggio, che è anche l'unico necessario,
del salario. Il salario abituale è, secondo Smith, il
piú basso che sia compatibile con la << simple humanité,>>
cioè con una esistenza animale.
La domanda di uomini regola necessariamente la
produzione degli uomini, come di ogni altra merce. Se
I'offerta è maggiore della domanda, una parte degli operai
è costretta a mendicare o a morire di fame. L'esistenza
dell'operaio è quindi ridotta alla condizione di
esistenza di ogni altra merce. L'operaio è diventato merce
ed è per lui una fortuna poter trovare un acquirente. E la domanda, da cui dipende la vita dell'operaio,
dipende dal capriccio dei ricchi e dei capitalisti. Se I'offerta
supera la domanda, una delle parti costitutive del
prezzo, il profitto, la rendita fondiaria e il salario, viene
pagata ad un prezzo inferiore, e quindi possibile per
una parte di tali prestazioni sottrarsi al proprio impiego
là dove il prezzo di mercato gravita verso il prezzo
naturale come punto intermedio. Ma 1) dove vi è una
grande divisione del lavoro difficilmente l'operaio potrà
spostare I'impiego del proprio lavoro in un'altra direzione,
2) è quindi I'operaio il primo a subire il danno,
dato il suo rapporto di subordinazione nei confronti del
capitalista.
Dunque, nella gravitazione del prezzo di mercato
verso il prezzo naturale chi ci perde di piú e assolutamente
è l'operaio. È proprio la possibilità del capitalista
di impiegare il proprio capitale in un'alta direzione a gettare sul lastrico I'operaio, il quale è legato a
un determinato ramo di lavoro ed è costretto ad assoggettarsi
a tutte le richieste di questo capitalista.
(...) Non è detto che I'operaio guadagni necessariamente
quanto iI capitalista guadagna, per contro, quando
egli perde, I'operaio perde necessariamente Cosl I'operaio
non guadagna quando il capitalista mantiene il
prezzo del mercato al di sopra del prezzo naturale in
virtú di segreti industriali o commerciali, di monopolio
o della posizione favorevole del suo fondo.
Inoltre: i prezzi del lavoro sono assai piú costanti
dei prezzi dei mezzi di sussistenza. In un anno di carestia
il salario diminuisce a causa della diminuzione della
domanda, aumenta a causa del rincaro dei mezzi di sussistenza:
vi è quindi equilibrio. In ogni caso viene licenziata
una certa quantità di lavoratori. Negli anni di
abbondanza il salario cresce a causa dell'aumento della
domanda, diminuisce a causa del ribasso dei mezzi di
sussistenza: vi è quindi equilibrio.

* Karl Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre
1844, in: Marx - Engels - Werke, Dietz Verlag, Berlin 1956-1958, (d'ora
in avanti M.E.'W.), Ergaenzungsband I (primo volume di supplementi),
pp. 471-472; cfr. Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. int. di
Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1968, pp. 11-13

giovedì 6 gennaio 2011

Pubblichiamo –nella trduzione di Stefano Garroni- alcune note, particolarmente stimolanti, dell’articolo scritto da R. Weimann (“Mythologie”), per il 3. volume dell’ Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften, stampato a Hamburg nel 1990, ma composto precedentemene nella Repubblica Democratica Tedesca..

R.Weimann, “Mythologie” .


Il termine ha un significato ambiguo, perchè, è inteso sia come costrutto mitologica, sia come mito assieme con la concezione e il sapere, che questo oggetto implicita. Fra mito e dottrina del mito ( cioè, mitologia in senso stretto) c’è il percorso dall’appropriazione preistorica e prescientifica del mondo, alla sua elaborazione e interpretazione storica e scientifica. In Europa, dei miti conosciamo solo alcune versioni di seconda mano e il suo concetto. L’oggetto stesso non è accessibile all’attuale esperienza sociale. E questo perché il mito presuppone certe forme di  coscienza sociale che,a partire da Marx, cercano, invece, di dominare le forze della natura  nella cultura e mediane la cultura. Il mito vivente può sempre esser ricosruito teoricamente come una forma di pensiero. Il momento sincretistico del mito, che può legarsi con la prassi del rito culturale, consiste nell’affastellamento, oggi non più realizzabile, e nell’anticipazione di divese pratiche vitali in una forma fantastica, prelogica e arazionale. In  quanto forma promitiva e totalizzante dell’appropriazione del mondo, il mito riflette sia la debolezza che la forza  dell’homo sapiens, il quale dall’unione in unità collettive, può costruire superiori forme di socializzazione. Nello stadio più antico, si eleborò nei miti classici della Grecia un divino mondo olimpico al di sopra dell’inferiore animismo, sciamanesimo e matriarcato dei tempi primitivi, che come l’antico culto fruttifero di Dioniso, fu respinto e soggiogato. Dal mistico propriamente risultò il religioso, che cominciò a separarsi da altre forme di socializzazione e di appropriazione del mondo.
Mentre, tuttavia, le più antiche funzioni del rito di iniziazione  e del culto di fertilità nei più antichi miti classici cominciavano a perder di importanza o, addirittura, venivano rimosse, le arti drammattiche trovarono in entrambi, da un lato, la grandiosità drammaturgica e, dall’altro, la primitiva radice tematica dell’efficacia teatrale.
Al contrario dei miti preistorici, la storia della mitologia può essee compresa solo dalla stotia dei suoi teorici. Essa inizia nella sofistica ellenistica,  che interpretava le tradizionali saghe e rappresentazioni come espressioni di un percorso naturale.
Questa così detta intepretazione del mondo divino, come anche quella morale ed allegorica medievale non vanno oltre il Rinascimento, nel quale la naturalezza glorificata dell’antico mondo deve giustificare ed esaltare l’esteticità delle arti.
Una nuova concezione del mito nasce nel tempo, così come i mutamenti storici nello stesso mondo moderno consentono una più profonda penetrazione del mondo antico e della vita dei popoli. Così la interpretazione allegorica del mito si impone assieme all’Illuminismo tedesco ed il mito non viene più inteso cme forma primitiva dei pregiudizi antichi, ma sì come la costruzione più bella e densa di contenuti , che si colloca tra il poetico e il filosofico (Herder).